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LA BELLEZZA

sabato 26 agosto 2017

VIVA LA VIDA! di Pino Cacucci. Feltrinelli



VIVA LA VIDA è la biografia di Frida Kahlo, una pittrice messicana di fama mondiale. Frida nacque il 6 luglio del 1907, ma per tutta la vita sostenne di essere nata nel 1910 perché proprio in quell’anno scoppiava la Revolución (evento storico cui Frida si sentiva particolarmente vicina). Gli ideali di Frida – infatti – abbracciavano il comunismo in un modo assai bizzarro, ovvero in modo puro e forte, ma – allo stesso tempo – romantico (o – quantomeno – è così che lo definisce Cacucci).
Questa biografia nasce come opera teatrale a quattro voci: la voce di Frida (ovviamente), di Diego Rivera (suo grande amore), di Cristina (la sorella più amata da Frida, tra le sue cinque sorelle) e di Tročkij; un’opera teatrale commissionata allo stesso Cacucci dal musicista Andrea Centazzo. Nonostante l’impegno del produttore Maurizio Feverati, però, l’opera non vide mai la luce in forma teatrale, fino al momento in cui Cacucci decise di rispolverarla e di condensarla in un monologo con la voce della sola Frida.
Ma perché questa donna ha riscosso tanto successo?
Paradossalmente fu un incidente stradale a conferire a Frida Kahlo la sua notorietà. Il 17 settembre del 1925 Frida ebbe – infatti – un terrificante incidente che la menomò per sempre, ma ella, allora diciottenne, non si dette mai per vinta e iniziò a dipingere autoritratti strepitosi in cui tendeva a concentrare tutte le sue emozioni e tutti i suoi sentimenti.  Il dolore fisico e quello dell’anima di Frida si possono quasi afferrare osservando i suoi dipinti così come leggendo  le parole di Pino Cacucci.
Il suo grande sogno era quello di sposare Diego Rivera, l’artista più famoso del Messico in quegli anni, ed effettivamente questo sogno si avverò, anche se fu lo stesso Diego a causare buona parte delle successive sofferenze di Frida.
In questo monologo dal titolo estremamente forte ed esplicativo Pino Cacucci fa trasparire tutta la forza, ma anche tutta la fragilità di questa donna che amava la vita, ma che – allo stesso tempo – agognava la morte. E’ un libro molto toccante che fa entrare il lettore in una dimensione del dolore davvero vivida: con Frida patiamo sofferenze inaudite, ma – ancora una volta – insieme a lei troviamo anche la forza e il coraggio di andare avanti. Si racconta che solo la madre di Frida credette in lei quando nessuno osava farlo e la fiducia fu tale che, per la figlia, fece costruire un cavalletto speciale affinché potesse dipingere anche da sdraiata.
Nonostante le perenni sofferenze fisiche e morali Frida non cedette mai all’autocommiserazione e neanche accettava che altri la compatissero. Era una donna dalla forza di volontà fuori dal comune, una donna da ammirare. La sua era una bellezza bizzarra, ma intensa e affascinante. I suoi ideali erano grandi e i suoi principi sani. Possedeva uno spiccato talento artistico e una straordinaria tempra morale.
Pino Cacucci è riuscito a rendere in maniera egregia la complessità di questa che – non dimentichiamolo - era una donna prima di essere un’artista.

PICCOLE GRANDI COSE di Jodi Picoult. Corbaccio



La domanda sorge spontanea:  Jodi Picoult è stata coraggiosa o presuntuosa, nello scrivere questo libro?
Per rispondere a questo interrogativo tanto spinoso occorre fare una premessa: Jodi Picoult stessa ritiene che questo libro sia diverso da tutti i suoi precedenti libri perché scriverlo ha fatto sì che si scatenasse un radicale cambiamento nel suo modo di pensare e credo che l’autrice abbia addirittura sentito il BISOGNO di scriverlo per poter far ordine e chiarezza nei suoi pensieri, prima ancora che nei pensieri e nelle opinioni del lettore. Dopotutto, l’argomento affrontato è estremamente delicato, sebbene molto diffuso. Per dar vita a questo romanzo, la Picoult ha attuato un durissimo lavoro di ricerca e di analisi: non ha soltanto preso dei semplici spunti da fatti realmente accaduti e da persone realmente esistite, ma ha rielaborato tutte le informazioni raccolte con grande intensità. L’intento era ed è quello di esortare ognuno di noi a guardarsi dentro, nel profondo dell’anima. Bisogna ascoltare sé stessi oltre che gli altri prima di poter formulare pensieri non privi di coscienza e morale. L’autrice stessa ha imparato a farlo e ha imparato – soprattutto – a fare tesoro delle testimonianze e delle esperienze vissute in prima persona o da altri, ed è per questo che è riuscita a scrivere con cognizione di causa la storia contenuta in “Piccole grandi cose” rendendo giustizia ad ogni singolo punto di vista. Sì, perché la struttura narrativa di “Piccole grandi cose” è identica a quella di uno dei suoi precedenti romanzi, intitolato “La custode di mia sorella”. La narrazione – infatti – si snoda attraverso molteplici punti di vista, così da far entrare maggiormente il lettore all’interno del pensiero di tutti i personaggi principali. Grazie a questo espediente narrativo è possibile evincere una delle caratteristiche più importanti del razzismo: esso non è mai unilaterale. Non si è razzisti solo quando si giudica un’altra razza inferiore alla propria, ma lo si è anche quando ci si ripara dietro la razza come se fosse una giustificazione alle nostre azioni o alle nostre inadempienze. Si è razzisti quando ci si rifiuta di ammettere che certe cose hanno a che fare col razzismo. Si è razzisti non solo quando si agisce a sfavore di un’altra razza, ma anche quando non si agisce per proteggere il diritto inalienabile che TUTTI abbiamo di stare su questa Terra. Non siamo tutti uguali, ma neanche tutti diversi: semplicemente, apparteniamo ad un’UNICA RAZZA, ossia la RAZZA UMANA (o genere umano, che dir si voglia). Questo non significa che bisogna far finta di essere tutti uguali – perché sarebbe ipocrita – ma neanche sottolineare le differenze con la chiara intenzione di sminuire l’altro, è una cosa moralmente inaccettabile! Il bello di questo romanzo è proprio che tutti i personaggi descritti e i loro punti di vista, sono trattati in maniera equa (o almeno questa era l’intenzione della Picoult). Il rischio – scrivendo un romanzo incentrato sul tema del razzismo – è - infatti - quello di risultare  ovvi, scontati, a volte banali (di quella banalità legata all’uso degli stereotipi) oppure ipocriti. Per fortuna, nella scrittura della Picoult, non ho trovato alcuna di queste cose. Razzismo non significa – infatti – solo pregiudizio; il razzismo non è la semplice – seppur deplorevole – discriminazione fondata sul colore della pelle: il razzismo implica anche il fatto di svantaggiare o avvantaggiare una razza rispetto a un’altra. Talvolta questo “schieramento” avviene in maniera inconscia, involontaria o inconsapevole, ma ciò non significa che sia una forma di razzismo meno pericolosa perché il razzismo è spesso sinonimo di ignoranza, di ottusità oltre che – altrettanto spesso – di cattiveria e di odio. E l’ignoranza è difficile da combattere esattamente quanto lo è l’odio. Il razzismo va di pari passo con la mancanza di comunicazione e – ATTENZIONE – non ho detto mancanza di parole, ma di comunicazione (cosa che può avvenire anche senza l’ausilio delle parole, per l’appunto). Il rispetto, innanzitutto. Dobbiamo ricordare che chiunque, dentro di sé, ha sia luce sia oscurità, quindi non ha senso identificare un’INTERA razza come il bene assoluto e un’altra come il male assoluto!
Tutto questo è reso – come dicevo poche righe sopra – grazie alla struttura narrativa, ma anche lo stile narrativo gioca sicuramente un ruolo fondamentale nella complicatissima operazione di rendere giustizia ad ogni punto di vista adottato. I sentimenti che i personaggi provano – infatti – sono comprensibili anche grazie al linguaggio, al tipo di termini utilizzati ad hoc dalla Picoult. Figure retoriche come metafore e similitudini sono particolarmente esplicative delle situazioni o degli stati d’animo narrati. Paradossalmente, la prosa della Picoult è molto poetica, mai pesante o pretenziosa, ma – al contrario – ricca di pathos e – all’occorrenza – di un’arguta ilarità che trovo sempre particolarmente azzeccata. La scrittura di questa autrice esercita su di me un grande fascino, la trovo quasi scenografica. La Picoult ha la capacità di farmi entrare nel vivo della storia avvolgendomi in una sorta di “Dolby Surround” letterario. E’ una scrittura evocativa  di immagini, sensazioni, odori che mi lascia sempre dei segni sotto la pelle.

FAHRENHEIT 451 di Ray Bradbury. Mondadori



Montag è un pompiere in un mondo al contrario in quanto – nella realtà descritta da Ray Bradbury – i pompieri non hanno il compito di spegnere gli incendi, bensì di appiccarli. Il loro scopo è quello di bruciare  i libri, tutti i libri rimasti in circolazione e far arrestare coloro che – leggendoli – infrangono la Legge.
Montag, però, non è felice: conduce un’esistenza alienata e alienante composta al fianco di una moglie che non lo degna di uno sguardo perché è sempre connessa a maxischermi che trasmettono futilità per tenere impegnata la gente e oltretutto il suo lavoro comincia a rappresentare una pesante routine. Tutto cambia quando Montag incontra Clarisse, una ragazza che non si è mai adattata a questo stile di vita imposto da un governo e da delle leggi che vogliono tutti i cittadini massificati e inermi. Clarisse instillerà forti dubbi nella mente – già resa instabile dall’insoddisfazione e quindi predisposta alla ribellione e al cambiamento - del pompiere.
“Fahrenheit 451” è un romanzo adrenalinico scritto nel 1953, ma fortemente attuale, come se fosse stato scritto oggi.
Un libro che descrive – con una dovizia di particolari impressionante – una società in cui nessuno ha tempo per gli altri, nessuno guarda negli occhi gli altri, nessuno si ferma a riflettere, a pensare, a osservare le cose del mondo, le cose che ha intorno a sé. La maggior parte delle persone non fa domande, non è curiosa, non comunica realmente con gli altri, ma si limita a pronunciare parole vuote. Nessuno si cura di sentire gli odori delle stagioni perché tutto è coperto e soffocato dal puzzo del cherosene.
Sono tutti uguali, ma l’uguaglianza è intesa come omologazione, come standardizzazione. Il governo li vuole così: buoni e felici, ma senza identità e senza cervello. E’ semplice donare la felicità agli stolti: basta dar loro intrattenimento, distrazioni, divertimento ed eccitazione; basta tenerli occupati, in movimento. Basta impedir loro di pensare. Questo fornisce alla gente un’illusione costante, ma uccide i sentimenti e rende le persone superficiali e distaccate da tutto e da tutti.
“Se non vuoi che qualcuno sia politicamente scontento, non fargli sapere che la questione ha due aspetti: digliene uno soltanto e non si preoccuperà. Meglio ancora, non dirgli niente. Fagli dimenticare che esiste la guerra. Se il governo è inefficiente, ingiusto e vuole troppe tasse, è meglio che rimanga com’è piuttosto che la gente si agiti. La pace, Montag. […] Riempila di informazioni innocue, rimpinzala di tanti “fatti” e si sentirà intelligente solo perché sa le cose. Loro crederanno di pensare, avranno l’impressione del movimento anche se non si muovono affatto”.
In questo modo la gente non solo non vive, ma si crogiola beatamente nell’illusione  di partecipare alla vita. Una vita in cui il tempo libero – foriero di conversazioni e di relazioni sociali reali e tangibili - è bandito; la gente non ha il tempo di pensare, ma è giunta ad un livello in cui non desidera più neanche avere il tempo di pensare.
“Ricordi che l’intervento dei pompieri è sempre meno necessario. Il pubblico ha smesso di leggere di sua volontà”.
Pensare, ragionare, riflettere, porre e porsi domande e interrogativi è dannoso e controproducente perché crea insicurezza e l’insicurezza crea infelicità. La cosa più importante – ovvero la consapevolezza – viene costantemente “bruciata” dal fuoco dei pompieri, il cui motto recita a chiare lettere:
“Bruciare sempre, bruciare tutto. Il fuoco splende, il fuoco pulisce”.
Ciò che può minare le fondamenta di questo Sistema è la curiosità; la curiosità di conoscere non tanto le cose, ma il significato delle cose. Per questo motivo, la chiave della vera felicità (e non lo specchietto per le allodole fornito dal governo) è data da tre fattori fondamentali:
1-                  La qualità dell’informazione.
2-                  Il tempo per assorbirla.
3-                  Il diritto di compiere azioni basate su quello che impariamo dall’interazione fra le prime due.
La profondità delle cose, la cultura, l’intelletto, sono andate via via assottigliandosi fino ad essere appiattiti e chi ancora possiede libri – ovvero degli strumenti che stimolano questi ambiti – è un pericolo per la vuota serenità dei cittadini. Chi non si adatta al Sistema imposto dal governo, viene eliminato. Non si ha scelta, perché scelta è sinonimo di libertà.
“Dobbiamo essere tutti uguali: non tutti nati liberi e uguali, come dice la Costituzione, ma tutti RESI uguali”.
Pertanto, nel romanzo di Bradbury, i pompieri rappresentano “i custodi della pace mentale, i difensori della nostra comprensibile e legittima paura di sembrare inferiori: così sono diventati censori ufficiali, giudici e giuria”.
Montag – però – capisce che dietro ogni libro c’è un essere umano e – proprio grazie ai libri – scopre (o, meglio, riscopre) di avere una coscienza, dei sentimenti e inizia a sentirsi vivo; la sua mente comincia (o, ancora una volta, sarebbe meglio dire che ricomincia) a “nutrirsi” dopo anni di “digiuno” forzato. Subentra in lui la consapevolezza che un essere umano ha bisogno di relazionarsi con persone fisiche e non con freddi schermi televisivi; che l’uomo ha bisogno di interrogarsi, di confrontarsi, ma – soprattutto - di emozionarsi!
A cosa porterà questa ribellione e la conseguente consapevolezza di Montag, ve lo lascio scoprire leggendo il libro, il quale ha un finale davvero emozionante e ricco di speranza. Non crediate – infatti – che il nostro mondo sia lontano da tutto questo. Volete un esempio di come siamo vicini alla società descritta da Bradbury? Prendete Twitter: un pensiero formulato in 140 caratteri non è affatto un’idea stupida perché – se ci fate caso – pochi sono disposti a leggerne di più. Quanti (realmente) aprono un post e si collegano all’articolo intero e lo leggono dall’inizio alla fine, senza distrarsi, sforzandosi di comprendere il messaggio in tutte le sue sfaccettature e – cosa ancora più impegnativa – cercando di crearsi una propria opinione?
A pensarci bene: quanti di voi sono giunti alla fine di questo articolo?