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LA BELLEZZA

giovedì 30 giugno 2016

"Lo strano viaggio di un oggetto smarrito" di Salvatore Basile. Garzanti.



“Lo strano viaggio di un oggetto smarrito”  è un capolavoro letterario scaturito dalla penna di Salvatore Basile.  E’ la storia di Michele  e del suo diario segreto. Michele fa il capostazione a Miniera di Mare – mestiere ereditato dal padre, deceduto 11 anni prima. Sua madre,  Laura, invece, lo ha abbandonato quando lui aveva solamente 7 anni, portando via con sé il  suo diario segreto, con la promessa  di restituirglielo, un giorno. Laura, non è mai più tornata, ma il giovane, ormai ventisettenne, ritrova il proprio diario tra i sedili del treno e da quel momento inizia la ricerca di sua madre. La storia di Michele è indissolubilmente legata a quella di Elena, una pendolare che ha perso una bambola cui tiene molto proprio su quello stesso treno che Michele perlustra ogni sera.  Elena piomberà, quindi, nella casa e nella vita del giovane capostazione come un fulmine a ciel sereno e lo aiuterà nella sua impresa.
Una narrazione, quella di Basile, in grado di portarci avanti e indietro nel tempo a scoprire il presente e il passato dei protagonisti.  Le pagine del diario di Michele ci spiegano con la chiarezza - che solo da  un bambino può scaturire – il vissuto del giovane. Avvalendosi di quelle pagine, Michele si “spoglia” per noi lettori e si rivela per quello che davvero è. In tal modo scopriremo che la sua casa all’interno della stazione stessa, è un “involucro” (come lo definisce Basile), un guscio in cui Michele si è rifugiato, attorniato da tutti  gli oggetti smarriti sul treno nel corso degli anni. Quegli oggetti gli fanno da scudo, lo proteggono, lo fanno sentire al sicuro, non lo tradiscono, come invece  hanno fatto i suoi genitori  e contribuiscono alla sua routine e alla sua quotidianità sempre uguale.
Questo libro rappresenta la crescita  interiore ed esteriore di Michele (che a pag. 133 sembra quasi seguire l’onda di Dorian Gray  (“In tutti quegli anni, pensò, tra il bambino di sette anni e l’uomo di trenta, era cambiato soltanto l’aspetto esteriore, ma la sua anima era rimasta intatta, come un oggetto smarrito messo al riparo dalle intemperie. Ora, invece, stava recuperando il tempo perduto e, in quello sguardo che vedeva riflesso nello specchio, aveva paura di non riconoscersi più”.). Ogni fermata del treno è una tappa della sua vita. Sul suo cammino, Michele incontrerà e conoscerà molte persone, ognuna delle quali gli insegnerà qualcosa, gli farà scoprire una parte si sé e gli farà recuperare in pochi giorni un passato di ben 20 anni.
Nel corso di tutta la narrazione si susseguiranno innumerevoli colpi di scena, eventi improvvisi che il lettore non si aspetta e che sono funzionali allo scopo di far entrare il lettore stesso in empatia con Michele e con Elena e con le rispettive storie di vita. In alcuni tratti mi è parso di ritrovare un pochino del romanzo di Paolo Giordano (“La solitudine dei numeri primi”),ad esempio a pagina 232 (“Rancore e gratitudine si alternavano sulla tastiera dei suoi sentimenti, come le mani di un fisarmonicista che, mentre suonano, si avvicinano e si allontanano, senza toccarsi mai”). Magistrale è stata la bravura di Basile nel penetrare all’interno della mentalità e del pensiero dei suoi personaggi per poi portare a galla, pezzo dopo pezzo, tutti i loro sentimenti, le loro sensazioni, le loro vicissitudini. Assolutamente encomiabile il rapporto tra Michele ed Elena che Basile è riuscito a creare, portando i due giovani a provare le stesse cose l’uno per l’altra e viceversa. Michele ed Elena arrivano quasi ad essere in rapporto gemellare tra di loro: se lui sta male, lei lo percepisce anche a distanza di chilometri e viceversa.
In alcuni punti della narrazione è il lettore stesso a provare le stesse sensazioni dei protagonisti. A pag. 255 a me personalmente è sembrato di essermi smarrita; mi sono sentita confusa e mi sembrava di vorticare; ho provato un forte senso di vertigine, ma non ho potuto staccare gli occhi dalla lettura. Perché, in fondo, è proprio questo che fa il romanzo: ti tiene incollato alle pagine, ti suscita il desiderio e il bisogno irrefrenabile di sapere come procede la storia, di sapere cosa accadrà di lì a poco, quali colpi di scena ha in serbo l’autore. E così tu, lettore, ti ritroverai a girare vorticosamente le pagine, una dopo l’altra, senza poterti fermare. E così, lettore, ti scoprirai a cercare freneticamente la madre di Michele, ti arrabbierai insieme a lui, piangerai con lui, imparerai che cosa si prova ad essere abbandonati, imparerai a lottare, ti verrà voglia di mollare tutto, ad un certo punto, ma qualcosa ti spingerà ad andare avanti; imparerai il sentimento del perdono, capirai il valore della famiglia, quello dell’amore,  quello della compassione e quello della gioia più profonda.
Il tema del colore fa da sfondo, ma allo stesso tempo domina tutto il romanzo. Grazie alle parole che l’autore fa pronunciare ad Elena, possiamo renderci conto che tutti i nostri sentimenti, tutto ciò che proviamo attimo dopo attimo, ci ricorda o ci trasmette un determinato colore. Così, se faremo attenzione, potremo percepire il colore di chi ci sta di fronte in ogni momento e interagire con chiunque nel modo più corretto. Un richiamo, questo, ad andare a fondo nelle cose, a non fermarsi alla superficie, a mettersi nei panni degli altri. La parola chiave di tutto il romanzo è EMPATIA.
Grazie a questo libro, possiamo apprendere il valore dei ricordi e quanto questi influiscano sulle nostre scelte di vita. I ricordi ci formano, stratificano uno sull'altro e possono indurire il nostro cuore, ma spetta solo a noi permettere che sbarrino la strada al nostro futuro oppure no.
Stupenda l’intervista a Salvatore Basile, posta al termine del romanzo. Mi duole non svelarvi di più né della trama, né dell’intervista, ma questo libro va letto assolutamente e se vi dessi ulteriori informazioni vi toglierei il gusto di farvi emozionare da questa storia così meravigliosa e commovente.

lunedì 27 giugno 2016

Cronache di una bomba... atomica.



Basta!

Sono morta il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico, per un esperimento. Poi sono morta ancora in una città giapponese di nome Hiroshima, il 6 agosto dello stesso anno. E poi ancora una volta tre giorni dopo, in un’altra bellissima città: Nagasaki.  Sono nata e morta ancora migliaia di altre volte dopo queste tre, ma lo scopo per cui sono stata creata la prima volta non è mai stato raggiunto e credo che mai si raggiungerà. La mia prima famiglia era molto singolare; ho avuto due padri, una madre e molti ostetrici. Uno dei miei padri, un certo Roosvelt era, in quegli anni, il Presidente degli Stati Uniti d’America; l’altro, nientemeno che il Primo Ministro inglese Churchill. Di questo non posso certo lamentarmi e non posso che andar fiera anche di mia madre, la Signora Fisica Nucleare. Avrei preferito non nominarla nemmeno, proprio perché ne vado fiera e la rispetto, ma per dovere di cronaca, sento che tagliarla fuori sarebbe un disonore assai maggiore. E’ stata una decisione molto sofferta quella di mettermi al mondo, sofferta quasi quanto le modalità della mia nascita. I miei padri hanno dovuto chiamare in causa degli esperti, scienziati la cui fama li precedeva di lunga distanza. Erano in molti, ma alcuni sono passati alla storia più degli altri e tra questi spiccavano Fermi, Teller, Szilard, Wigner  ed Einstein. Le loro menti si unirono sotto il segno di un progetto denominato “Manhattan” e davanti agli occhi attenti del fisico Robert Oppenheimer. Sono nata in segreto e con lo scopo di contrastare la potenza della Germania e di colui che aveva costretto all’esilio alcuni dei miei creatori: Adolf Hitler. Avrei dovuto portare la pace e invece sono stata foriera di guerra, morte e distruzione. Luoghi comuni, ma cui mai ci si abitua, soprattutto se si è me: una bomba atomica. Strano a dirsi, ma sono nata per morire e portare con me tanti che, ho capito troppo tardi, essere innocenti. Sono venuta al mondo per distruggerlo e ancora
oggi non capisco perché per fermare un solo uomo io abbia dovuto abbatterne tanti altri. Con l’esperienza accumulata nelle mie tante deflagrazioni sono arrivata però a comprendere che l’uomo prova due sentimenti quando decide di usarmi: paura e brama di potere e di dominio. Tanto è vero che una delle mie “performance meglio riuscite” secondo gli Americani, è stata proprio quella su Hiroshima. Avrei dovuto costringere i Giapponesi alla resa incondizionata o alla capitolazione. Purtroppo nessuno ha davvero compreso che sarebbe stato impossibile effettuare una scelta, perché la distruzione era l’unica scelta. I miei creatori, all’inizio, erano come me: ignari, ma speranzosi. Fiduciosi, hanno vissuto per tanto tempo in condizioni disagiate e poco confortevoli, ma erano pieni di grandi speranze; coltivavano aspettative per un futuro migliore dominato dalla pace tra i popoli e per questi motivi confidavano nella bontà del loro progetto. Scientificamente avrebbe rappresentato un gigantesco passo avanti e umanamente avrebbe potuto garantire la tranquillità e la pace. La pace, a dire il vero, sono riuscita a fargliela avere, ma a quale prezzo? E’ facile arrendersi di fronte alla morte e non è di certo un nobile gesto conquistare la pace con essa o con la sua sola minaccia. Ma quello che ancor più mi è oscuro è il perché, usatami la prima volta, non si siano vergognati, come è successo a me, del loro gesto. Come non siano rimasti abbastanza inorriditi da non prendere più neanche minimamente in considerazione l’eventualità di ripetere quell’errore.  Come si può reiterare la creazione di un disastro di proporzioni mondiali per migliaia di volte? 2153 gli errori fino ad oggi. Quanto ancora sporcheranno la loro coscienza e la mia? Quanto altro sangue mi costringeranno a spargere prima di aprire gli occhi e ridestarsi dall’incubo reale che con le loro mani hanno creato? Quanto ci vorrà perché capiscano che non sono io la soluzione che cercano e che sono pronta a sacrificare la mia morte – perché per me vale il discorso contrario – per dar loro la vera pace? Se sperano di trovare quest’ultima sacrificando la gente allora devo dedurre che ho fallito; non ho insegnato nulla e non sono riuscita nel mio vero grande intento: farli imparare dai loro errori perché non li commettessero mai più. Purtroppo, per me è del tutto impossibile resistere all’impulso generato dall’innesco che mi fa esplodere dando vita ad una reazione a catena devastante. E soffro. Soffro perché sono nelle mani di chi mi crea – per poi distruggermi – e in quelle di mia madre, la Fisica Nucleare. E non crediate che non pianga. Piango anch’io, artefice nolente della rovina umana, spandendo le mie schegge come lacrime, amplificando il dolore così come la fissione fa espandere le mie particelle. Lo so che questo dolore non è niente in confronto a quello che ho causato e che causo ancora, ma non riesco a non pensare a ciò che succede quando mi avvicino alle persone. Vorrei urlare loro di spostarsi, di fuggire, ma avviene tutto troppo in fretta. Non sono in grado di rallentare o di seppellire la mia la mia forza e non posso evitare l’impatto, non riesco. Scaravento in aria ogni cosa, chiunque io tocchi. Alcuni li ho fatti sparire lasciando le loro immagini stampate sui muri come fossero ombre. Fantasmi di cui ricordo ogni volto e che non hanno avuto neanche il tempo di dire addio ai loro cari, di salutare i loro amici. Alcuni li ho mandati in pezzi, milioni di piccoli pezzi infuocati. Ignari di ciò che stava per accadere loro e della fine che avrebbero fatto, tanti si sono voltati a guardarmi e ho visto solo una cosa nei loro occhi, rischiarata dalla mia luce accecante: la paura. Sono destinata a vedere solo quella da molti anni a questa parte e non faccio altro che sognare come sarebbe il mondo se tutti, nei loro occhi, avessero invece la serenità e la gioia.
Neanche gli edifici resistono e sono costretta a portarli tutti via con me. Vetro, ferro, acciaio e mattoni… Nessun materiale oppone resistenza. Legno, carta, stoffa e acqua; ogni cosa è vittima del mio impeto. Tanto che ho sulla coscienza anche il futuro di chi rimane: ho dato vita a creature mostruose, ho menomato corpi, bruciato capelli, amputato arti o creatone di superflui; ho deformato, fatto proliferare il cancro, mio ignobile alleato. La natura ha cercato di riparare i miei danni, dando loro dell’acqua con cui porre fine all’arsura, al bruciore delle carni, alla sete, ma io avevo contaminato anche quella e ho inflitto nuove sofferenze a chi cercava sollievo dalle proprie pene. Persino gli uccelli prendevano fuoco in  volo, trasformandosi in coriandoli neri.
Visto l’effetto su Hiroshima, ho sperato che si sarebbero fermati a riflettere e invece, solo tre giorni dopo, col timore che gli scoppiassi addosso e col pensiero di non potermi riportare indietro, si sono disfatti di me, liberandomi su Nagasaki. Forse non tutti sanno che ho creato anche lì gli stessi danni creati su Hiroshima e pochi la nominano, ma io ricordo ogni vita che ho spezzato, ogni muro che ho mandato in pezzi, ogni luce che è scaturita da me per poi dare spazio al buio del mio fungo atomico. Ricordo ogni cielo che ho oscurato e ogni singolo pianto dei bambini che ho fatto ammalare. Coloro che sono sopravvissuti, gli Hibakusha, parlano di me. Mi ricordano per la luce che ho scatenato e per il calore che ho prodotto. E in memoria di tutto questo, solo una cosa voglio dire: BASTA!




COME INVOGLIARE I BAMBINI A LEGGERE E INCREMENTARE LA LORO CREATIVITA’ E FANTASIA.



Tempo fa un’amica mi raccontò una cosa che mi fece rimanere a bocca aperta e che – soprattutto – mi spezzò il cuore: la sua nipotina di 7 anni le aveva confidato di NON ESSERE CAPACE DI IMMAGINARE.
Come si può – mi chiedo –  non essere in grado di compiere un'operazione tanto naturale e spontanea?
La risposta è semplice: ai piccoli viene insegnato a stare “con i piedi per terra” , viene inculcata la razionalità, vengono tarpate le ali che – a quell’età, se non anche prima – si stanno formando. Questo accade perché la società ha bisogno che i piccoli crescano il più in fretta possibile; ha bisogno che diventino autonomi e disillusi fin dalla più tenera età; che imparino a cavarsela da soli e ad essere scaltri e, per fare queste cose, è necessario che si appellino alla ragione e alla razionalità e non di certo ai sogni e alla fantasia. Perché diventino degli impiegati modello o dei perfetti lavoratori, obbedienti e controllabili, vengono allontanati – più o meno drasticamente – dalle fantasticherie ad occhi aperti. Perfino nei loro sogni i bambini sono assaliti da debiti, sensi di colpa, ansia da prestazione e terrore di fallire. Acquisiscono poco per volta tutte le paure dei genitori, tutti gli “indottrinamenti” degli insegnanti, tutti i paletti degli adulti.
A questo punto vi starete chiedendo COSA ABBIA A CHE FARE QUESTO DISCORSO CON L’INVOGLIARE I BAMBINI A LEGGERE. Anche questo è semplice da spiegare. Quando leggiamo un romanzo siamo automaticamente portati ad immaginare le scene descritte, i personaggi, i luoghi e gli accadimenti ivi raccontati; tutto avviene nella nostra mente, nella nostra testa tramite dei meccanismi biochimici che hanno dello straordinario. Per i bambini (di oggi) questi meccanismi di “creazione” sono stati soppiantati da immagini “già pronte” a cui assistono passivamente perché scorrono davanti ai loro occhi su PC, tablet, cellulari, TV e altri dispositivi simili. Leggere un libro significa non avere delle immagini preparate, ma crearne di sana pianta nella propria testa. Scrivere delle storie comporta la stessa premessa: l’utilizzo della fantasia, di una visione che va ben oltre quella degli occhi fisici, ma che si avvale degli “occhi della mente”. Il risultato è che – dovendo fare questo tipo di operazione – i bambini si annoiano, si spazientiscono o addirittura si spaventano a vedere quelle parole, una in fila all’altra, intercalate da rare (o inesistenti) immagini.
QUALI SONO, ALLORA, I MIEI CONSIGLI?
Innanzitutto voglio premettere che tutto ciò che vi trasmetterò in questi consigli è frutto della mia personale esperienza. Detto questo, spero vi siano utili.
·         Mostrate ai piccoli la realtà che li circonda e lasciate che interagiscano con essa il più possibile.
·         Per permettere loro di interagire con la realtà, basterà che li lasciate liberi di usare tutti e 5 i sensi. In breve tempo saranno in grado di conoscere e sfruttare anche il sesto (di cui l’immaginazione è parte integrante).
·         Guardare gli animali su uno schermo non permette ai piccoli questa interazione, pertanto sarà necessario mostrare loro le creature dal vivo. Allo scopo sono particolarmente adatti gli agriturismi, i parchi naturali, i grandi acquari, i musei di storia naturale e tutte le strutture di questo genere.
·         Per imparare ad immaginare (e – di conseguenza – apprezzare la lettura) dovranno provare tante sensazioni (caldo, freddo, ruvido, morbido, dolce, salato, ecc.).
·         Indispensabile sarà stimolare la loro curiosità, perciò – adulti – dovrete studiare e documentarvi su aneddoti “sfiziosi” riguardanti più argomenti e affiancare i vostri bimbi nella ricerca di ulteriori informazioni. Anche perché, una volta che avrete attirato la loro attenzione su qualcosa, saranno loro stessi (nella maggior parte dei casi) a tartassarvi di domande.
·         So che sarà faticoso (soprattutto dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro), ma il prossimo consiglio – nonostante possa sembrarvi banale – è utilissimo: leggete o raccontate loro delle storie anziché piazzarli davanti al televisore.
·         Fate fare loro degli esercizi divertenti e stimolanti, tipo i seguenti:

1.        Pinco Pallino deve andare dal punto A al punto B che si trova proprio dall’altra parte del mondo e, per farlo, potrà usare solo mezzi non convenzionali (es. sulle ali di una farfalla, su un tappeto volante, su una macchina composta da formiche, ecc.). Trovare almeno tre soluzioni stravaganti ogni giorno
2.      Cominciate a raccontare una storia (partite da storielle molto brevi per andare, via via, a raccontarne di più lunghe e complesse) e poi fatela continuare o terminare al bambino.
3.      Scrivete 10 parole, ognuna su un foglietto separato, poi piegate ogni foglietto e ponete il tutto in un sacchetto. Fategli estrarre a sorte 5 foglietti. Con quelle 5 parole dovrà comporre un racconto (meglio se stravagante).
4.      Portateli più spesso al teatro anziché al cinema.
5.      Riesumate il gioco del MIMO. Mimate titoli di film, brevi fiabe, mestieri, ecc. Fate il gioco delle facce insieme, cosicché capisca il significato delle espressioni facciali (triste, felice, arrabbiato, ecc.).
6.      Bendatelo e poi sottoponetegli degli oggetti che dovrà analizzare solo con il tatto o con l’olfatto. Segnatevi quanti ne riconoscerà.
7.       Pescate una lettera dell’alfabeto e invitatelo a scrivere tutte le parole che gli vengono in mente, ma che comincino proprio con quella lettera.
8.      Leggete loro la pagina di un libro o un breve racconto e poi invitatelo a disegnarlo.
9.      Tracciate un segno a caso su un foglio e invitatelo a comporre un disegno partendo da quello “scarabocchio”.
10.   Osservate il cielo e giocate insieme ad interpretare le forme delle nuvole.
11.     Fatelo “mettere nei panni” degli oggetti di uso comune e invitatelo a pensare a cosa questi direbbero se avessero la facoltà di parlare. (Es. Cosa penseresti se fossi una forchetta?). Lo stesso esercizio può essere fatto mettendosi nei panni di qualsiasi cosa, persona o animale.
12.    Fate ascoltare al bimbo della musica ad occhi chiusi; dovrà lasciarsi andare alle sue emozioni. Una volta che la musica sarà terminata, fatevi raccontare cosa ha provato, cosa ha visto nella sua mente, le immagini e le storie che si sono formate nella sua testa.
13.    Fategli fare un DISEGNO-NON DISEGNO, cioè un disegno composto da materiali non convenzionali (ad es. utilizzare della pasta cruda, dei chicchi di riso, ecc.).
14.   Ponetegli domande tipo: secondo te cosa non va in questo mondo? Come cambieresti le cose che non vanno? Cosa ne pensi di questo? E cosa ne pensi di quello? In questo modo si sentirà considerato, utile e apprezzato.
15.    Organizzare per loro qualche caccia al tesoro con indizi, indovinelli, aiuti e così via.
16.   Se conoscete delle lingue straniere, abbozzate ogni tanto qualche parola in quelle lingue.
17.    Fate loro osservare delle foto (possibilmente di personaggi famosi, ma che loro non conoscano) e fateli pronunciare in merito a cosa vedono in quelle persone, quale mestiere credono che facciano, cosa comunicano i loro volti.
18.    Ricordatevi che non è mai troppo presto per porre la fatidica domanda: cosa vuoi fare da grande? Sarebbe, però, molto istruttivo se si facessero fare loro delle… “prove tecniche di professione”, cioè: una volta che il bambino vi avrà dato la risposta, potreste fargli provare a svolgere quella professione. Meglio ancora sarebbe se poteste fargli conoscere qualcuno che già svolge quella professione e gliela possa mostrare.
19.   Insegnate le basi della matematica usando cose sfiziose e colorate, tipo le caramelle.
20.  Non abbiate paura di porre domande come: in quale personaggio del passato vi trasformereste, se ne aveste la possibilità? oppure: se doveste recarvi su un pianeta sconosciuto e poteste portarvi solo tre oggetti, quali scegliereste?
21.    Esercizio di gruppo: Tizio dice una parola e poi lancia una palla a Caio, il quale deve collegare a quella parola un’altra parola (per significato, per assonanza, per affinità di colore, per genere, ecc.). E così via per tutti i partecipanti al gioco.

Con questi esercizi impareranno a recitare (e si appassioneranno al teatro, alla poesia, al cinema, ecc.); impareranno a rispettare gli animali, gli oggetti e le persone; diverranno più empatici; disegneranno volentieri e l’arte comincerà a invadere i loro cuori; grazie ad alcuni di questi esercizi potrete incrementare il loro vocabolario. Ciò che è certo è che maggiori saranno le sollecitazioni cui li sottoporrete, maggiori saranno le possibilità che i vostri bimbi si appassionino a qualcosa; e se si appassionano a qualcosa svilupperanno in automatico dei gusti e degli interessi personali. Il compito degli adulti sarà poi accompagnare i piccoli nel seguire queste loro passioni. La cosa importante sarà NON forzarli a fare cose che non si sentono di fare e lasciare loro il tempo di fare i bambini: devono avere il tempo di giocare, quello di intrattenere relazioni tra di loro, quello di dar sfogo alle loro passioni e quello di riposare; a volte dovranno persino annoiarsi! Tutto è utile se “assunto” nelle dosi ottimali.
Ascoltate le loro domande e cercate di fornire loro risposte SINCERE. Se non avete le risposte, informatevi, possibilmente insieme a loro. Quando saranno un po’ più grandi potrete insegnare loro DOVE e COME trovare le risposte che cercano. IL CASO VUOLE CHE I LIBRI NE FORNISCANO MOLTE…
 Non prendeteli in giro con risposte piene di tabù o di bugie da quattro soldi tipo: i bambini nascono sotto i cavoli. Se userete PAROLE SEMPLICI i bambini saranno in grado di comprendere anche i concetti più complessi!


lunedì 13 giugno 2016

Le poesie di Pablo Neruda.

Vorrei precisare che tutte le recensioni presentate il questo blog sono frutto delle mie personali riflessioni e questo post sulle poesie di Pablo Neruda non fa eccezione. Nulla di ciò che scrivo è da considerarsi verità assoluta, ma un' umile base di partenza che magari può invogliare chiunque segua il mio blog a fare proprie le mie stesse letture.
Fatta questa doverosa premessa, posso passare a parlarvi del Premio Nobel per la Letteratura del 1971, Pablo Neruda.
Pablo Neruda (pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalì' Reyes Basoalto) è stato un poeta cileno di enorme talento. Un poeta "di pancia e per la pancia"- lo definirei - in quanto, con le sue parole, arriva dritto allo stomaco del lettore e con le sue tematiche così vicine a tutti, così quotidiane, sa conquistare ogni palato. Creature alate come api, farfalle, condor, albatros (l'elenco è lungo, ma io mi fermo qui) popolano ogni suo componimento. Silenzio e assenza si fondono insieme e dominano ogni verso con la loro presenza. Incisivo e delicato, sa rendere perfettamente il contrasto tra notte e giorno, tra luce e buio, tra vita e morte. Neruda coinvolge tutti e quattro gli elementi naturali; parla di solitudine, di malinconia e di nostalgia, ma - allo stesso tempo - compare spesso qualche spiraglio di luce nell'ombra, nell'oscurità delle sue parole.
Unendo due aggettivi che fanno parte di sfere sensoriali differenti, rende sempre in modo chiaro l'idea di ciò che prova. (ES. "Solo la morte" v. 46 "suono buio"). Accostamenti azzardati eppure così ben riusciti fanno spesso capolino tra i versi. (ES. "Barcarola" v. 11 "fiamme umide"). 
Le sue poesie, i suoi versi, le sue parole scorrono, galleggiano, gorgogliano, si immergono e ti parlano dal profondo di un abisso per poi riemergere e farti scoprire che erano comprensibili anche da "sommerse". Neruda ha il potere di trasportarti, di dondolarti, di cullarti, ma anche di farti rabbrividire. 
Si trovano spesso ripetizioni di una stessa parola all'interno della medesima strofa o della medesima poesia, ma il risultato non è mai stucchevole. Anzi - Neruda riesce a penetrare nelle profondità del tuo cuore e della tua sensibilità con quelli che io ho soprannominato "messaggi subliminali grezzi" che ti inducono a provare a sentire ciò che ha sentito lui, come una specie di empatia.
Alcune tematiche sembrano rappresentare per questo poeta dei "chiodi fissi", che però vengono resi sempre in maniera diversa: il sesso - ad esempio -è erotico, è crudo, è sensuale, è dolce, ma non è mai volgare.
Spalanca le porte del quotidiano, rivela la bellezza della semplicità. Alcune poesie sono ispirate proprio dal quotidiano e dalla semplicità, altre - invece - si nutrono di ricordi, sono fortemente autobiografiche e ci parlano di morte, di sangue, di ultime volontà, della casa natia, ma soprattutto degli orrori della guerra. Allitterazioni con funzioni onomatopeiche conferiscono alla sua poesia una musicalità evocativa. (ES. "Spiego alcune cose" vv. 53,54,55 "sciacalli che lo sciacallo caccerebbe,/pietre che il cardo secco morderebbe sputando,/vipere che le vipere odierebbero"). Ogni ripetizione è messa lì, apposta, per creare empatia tra poeta e lettore, per trasmettergli dolore, angoscia e disperazione. (ES. "Spiego alcune cose" ultime due strofe: "Chiederete perchè la sua poesia/non ci parla del sogno, delle foglie,/ dei grandi vulcani del suo paese natio?///Venite a vedere il sangue per le strade,/ venite a vedere/ il sangue per le strade,/ venite a vedere il sangue/ per le strade!"). Non ricorda anche a voi un climax di dolore e angoscia ascendenti?
Sono poesie "arcobaleno" quelle di Neruda, "variopinte" nel senso più lato del termine dove sono presenti i grandi e i piccoli temi della vita ma anche tutti i colori dello spettro cromatico (con una spiccata predilezione per l'oro, il nero, il rosso e l'azzurro).
Sono speciali i suoi raffronti tra il giorno e i metalli nell'"Ode al giorno incostante" e - più in generale - sono speciali le sue odi agli ortaggi e agli animali. Ci commuove la storia antropomorfizzata di un carciofo; ci fa sentire ricchi avere un limone; ci fa ribollire il sangue pensare al pomodoro. 
Occhi ingenui, ma esperti, quelli del poeta; parole semplici, ma efficaci, ricercate, curate, le sue. 
Memoriali commoventi ci parlano dei suoi ricordi familiari, della sua casa, della "mamadre", del padre, ma troviamo anche il periodo del suo esilio, nonché il rapporto col proprio corpo e con l'altro sesso.
La terra vista come patria, come letto di morte, come elemento naturale; l'acqua nelle sue infinite sfaccettature, nelle sue molteplici forme e nei suoi mille usi. Ogni cosa è esaminata e resa in tutte le sue forme e in tutti i suoi significati.
Tutta la sua poesia trasuda il periodo storico-politico da lui vissuto, la sua terra e la terra dell'esilio. Ogni cosa ha contribuito a rendere straordinaria la scrittura di Pablo Neruda che è completa, intuitiva e coinvolgente, ma soprattutto comprensibile a chiunque.